L’impresa – Luci e ombre

Tratto dal libro “Privatizziamo!Ridurre lo Stato, liberare L’Italia” di Massimo Blasoni

Si sono vissute stagioni di grande sviluppo nel secondo dopoguerra, quando l’Italia è fiorita anche grazie alle condizioni demografiche e sociali che rendevano senza dubbio più facile il ruolo dell’imprenditore.
Del resto, il boom non richiedeva nemmeno forti investimenti in tecnologia; la crescita della domanda andava, di fatto, seguita e cavalcata. Un’altra fase di espansione si è avuta grazie all’eccezionale crescita
del settore terziario e anche alla ristrutturazione del nostro sistema industriale dopo la crisi globale degli anni Settanta. Oggi invece si osserva lo sviluppo impetuoso dei cosiddetti Paesi emergenti, mentre retrocediamo in tutte le classifiche – volumi, produttività, crescita – ma soprattutto perdiamo occupazione e reddito pro capite. Il modello di capitalismo italiano è fondato su un tessuto di piccole e medie imprese da alcuni ritenuto un punto di forza a dispetto di tutte le teorie economiche che postulano la sicura superiorità della grande impresa, caratterizzata, da un lato, dalla più ampia copertura della filiera produttiva e, dall’altro, dalla possibilità di gestire meglio il mercato dei beni e servizi destinati alla vendita. In effetti, il problema delle ridotte dimensioni nell’economia globale è concreto, anche se non vi è un modello valido in assoluto. La realtà è più complessa e la storia ha dimostrato come anche aziende molto contenute nelle dimensioni, per giro d’affari e per numero di dipendenti, siano riuscite a creare valore su presupposti diversi e comunque in modo ugualmente efficace. Si pensi alla nascita e allo sviluppo dei distretti, fenomeno tipicamente e orgogliosamente italiano, capaci di realizzare centri di eccellenza e competere in tutto il mondo, contribuendo al classico «made in Italy» che su scala globale, come brand, ha un valore economico davvero notevole. Ma dagli anni Novanta l’Occidente (e quindi anche noi) ha perso il primato tecnologico e, dunque, la possibilità di produrre quell’innovazione di cui prima non erano capaci i Paesi a basso costo del lavoro. Non è più così: la produzione dei Paesi emergenti è cresciuta in quantità e qualità, pur mantenendo prezzi più convenienti, e ora il brand da solo non basta, soprattutto se non vi è un coerente sviluppo dell’ambiente economico di riferimento. Le infrastrutture pubbliche inadeguate, la struttura e i livelli di efficienza della pubblica amministrazione, la fiscalità, lo scarso sviluppo del sistema concorrenziale e capitalistico a favore delle partecipazioni e dell’assistenza pubblica riservata a un ristretto numero di imprese, oltre che la scarsa maturazione del sistema finanziario, hanno imposto vincoli pesanti allo sviluppo della nostra imprenditorialità. A questo elenco si è aggiunta negli ultimi anni la crisi internazionale, inizialmente di origine finanziaria, che ha mosso i primi passi negli Stati Uniti. Si può parlare di «crisi dell’impresa italiana»? E se sì, la si può attribuire a fattori esogeni (sistema Italia, crisi globale), sostanzialmente indipendenti dalla volontà dei nostri imprenditori, oppure è il frutto di una loro scarsa propensione all’innovazione, di una loro
limitata capacità nell’affrontare i cambiamenti e cogliere le potenziali opportunità che ne derivano? A queste domande non esistono semplici risposte e, del resto, la complessità del mondo economico in cui viviamo raramente le offre. Uno dei dati che fa più riflettere è come nell’arco di pochi anni siamo scesi dal quinto all’ottavo posto tra i Paesi produttori, mentre su scala globale il peso del nostro settore manifatturiero si è ridotto a poco più del 3%. È vero che l’Italia rimane davanti alla Francia ed è seconda in Europa solo dietro alla Germania, ma bisogna certamente fare i conti con la prepotente avanzata dei Paesi emergenti. A livello globale siamo stati superati da Paesi come l’India (sesto) e il Brasile (settimo), che crescono a ritmi sostenuti, mentre il nostro pil è stagnante da più di un decennio. In secondo luogo, il saldo di natalità delle imprese ha mostrato una rapida flessione fino a ridursi sostanzialmente a valori di poco superiori allo zero. C’è sempre meno vitalità e sempre meno persone scelgono di diventare imprenditori. Questo è tanto più vero per le piccole e medie imprese e per gli artigiani. Si stima che negli anni della crisi circa diecimila imprese storiche, con più di cinquant’anni di attività, abbiano chiuso i battenti. Secondo il World Economic Forum, rapporto 2014-2015, la nostra competitività internazionale figura solamente in quarantanovesima posizione. Comunque si guardino questi numeri, stiamo senza dubbio assistendo a processi talmente profondi e prolungati nel tempo da lasciarci temere che più che di una crisi si tratti di un inesorabile declino.
Conviene allora concentrarsi sulle cause di questo fenomeno: cause che possono riferirsi, come premesso, a fattori esogeni oppure endogeni all’ambito delle nostre imprese. Senza alcuna pretesa di essere esaustivi, se ne elencano alcuni.

Massimo Blasoni
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I lavori che non ci sono più e quelli che ci saranno

Tratto dal libro “Privatizziamo! Ridurre lo Stato, liberare L’Italia” di Massimo Blasoni

Un recente rapporto del Labor Department degli Stati Uniti ha spiegato che studiare potrebbe non essere più sufficiente per garantirsi un posto di lavoro adeguato. Il 65% dei ragazzi che oggi siede su un banco di scuola si troverà a fare un lavoro che ancora non esiste.
La tecnologia sta provocando un mutamento storico delle nostre abitudini e del mercato del lavoro: cambi di paradigma così impattanti si sono già vissuti in passato, basti pensare al fenomeno della Rivoluzione industriale. Mai, però, con questa rapidità. Il sistema scolastico italiano e i vecchi metodi di insegnamento e di avvio alle professioni appaiono oggi inadatti ad affrontare queste sfide. Diventa fondamentale modificare il modo in cui si affrontano e si risolvono i problemi, passando da un sistema di insegnamento fondato sul trasferimento di nozioni a uno capace di trasmettere metodo e di incentivare creatività e capacità di adattamento. Se si parla di qualcosa che ancora nemmeno esiste, si deve anche avere l’umiltà di ammettere l’impossibilità di programmazione: non serve a nulla immaginare percorsi di formazione specifici e basati su un mondo che non esiste. Molto più serio è invece abituare studenti e lavoratori all’idea che, fornite le basi tecniche e di conoscenza, l’apprendimento non è più una fase della vita circoscritta alla giovinezza ma deve diventare un aspetto con cui conviveremo sempre e dunque comprendere che il percorso lavorativo si deve accompagnare con quella formazione permanente, che invece latita in Italia. Chi oggi frequenta un qualsiasi corso di informatica, a un qualsiasi livello, sa già che sta incamerando informazioni che saranno probabilmente superate quando avrà finito il suo percorso scolastico: vale per chi siede su un banco del primo anno del liceo scientifico e vale per chi sta sostenendo il primo esame universitario di ingegneria informatica. Chi oggi si laurea o si diploma in materie informatiche o statistiche ha iniziato la sua formazione quando su LinkedIn, il popolare social network dedicato ai professionisti, erano iscritti 89 sviluppatori di applicazioni per iPhone, 53 sviluppatori di applicazioni per Android, 25 esperti in gestione di social network, nessun analista di Big Data e 195 specialisti in servizi cloud. In meno di un lustro questi posti di lavoro si sono moltiplicati: gli sviluppatori di app per iPhone sono 142 volte quelli del 2009, quelli che si occupano di sviluppare applicativi per Android 199, mentre gli esperti di Big Data sono oggi 3.340 volte quelli di allora. Nessuno dei loro professori gli aveva mai spiegato che con un telefono si sarebbe potuto operare sui conti correnti bancari, ascoltare musica o che l’analisi dei dati avrebbe aiutato i Governi di tutto il mondo a migliorare le proprie scelte di politica pubblica. Vale per ogni Paese del mondo, forse ancor più per il nostro mercato del lavoro, fra tutti, uno dei più restii a cogliere rapidamente le innovazioni.

Massimo Blasoni
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Il Jobs Act: la direzione giusta e il poco coraggio

Tratto dal Libro “Privatizziamo! Ridurre lo Stato, liberare L’Italia” di Massimo Blasoni

Il Jobs Act varato dal governo Renzi va, in piccola parte, nella giusta direzione. Ma vale solo per il futuro e non per tutto quello che sin qui si è formato e rischia di dispiegare i propri effetti in un tempo eccessivamente lungo, finendo per applicarsi solo ai nuovi contratti e quindi, visti i bassi tassi di crescita e la scarsa dinamicità della nostra economia, a un numero troppo ridotto di persone e di imprese. Molti dei nodi elencati nelle pagine precedenti, peraltro, non sono affrontati. Il nostro mercato del lavoro continua a essere segmentato e i lavoratori penalizzati o avvantaggiati senza alcuna ragione di merito. Continua a essere ipergarantito il pubblico impiego, cui le norme del Jobs Act non si applicano né per il passato né per il futuro. Continua a esistere una contrapposizione tra chi è garantito in quel determinato posto di lavoro e chi è chiamato a misurarsi sul mercato. La dicotomia che prima esisteva tra lavoratori delle piccole e delle
grandi imprese oggi esiste ancora: da un lato, ci sono i lavoratori assunti nelle grandi imprese prima del marzo 2015; dall’altro, tutti gli altri, lavoratori delle aziende con meno di 15 dipendenti e nuovi assunti in quelle oltre questa soglia. Questo bloccherà ancora di più il dinamismo del nostro mercato: quale lavoratore di una grande azienda con un contratto del vecchio tipo accetterà una nuova proposta, magari con un salario migliore, sapendo che finirà per rinunciare a una rendita di posizione praticamente perenne? Nessuno, ovviamente. Così come non vengono minimamente affrontati il tema della produttività e la patologia, cruciale e ben segnalata dalla Banca Mondiale, per cui è sostanzialmente impossibile legare l’andamento dei salari alla produttività del lavoratore e ai risultati dell’impresa.

Massimo Blasoni

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Politiche disattive

Tratto dal libro “Privatizziamo! Ridurre lo Stato e liberare l’Italia”

Anche dopo le modifiche subite dall’articolo 18 in fin dei conti siamo ancora fermi a un’impostazione fordista che immagina un sistema teso alla piena occupazione e grandi fabbriche in cui i lavoratori (operai, impiegati o quadri, poco importa) entrano giovanissimi per uscire soltanto al raggiungimento dell’età della pensione. È il mito della job property, del posto fisso, del lavoro a tempo indeterminato, otto ore al giorno, per tutta la vita nello stesso luogo fisico. Non è più così e sarebbe utile prenderne atto. È cambiato l’assetto sociale del nostro Paese: ci sono più laureati, la manifattura è in crisi, la rete ha «inventato» dal nulla nuovi lavori e permesso la modernizzazione di altri, esiste il telelavoro, la monocommittenza non è più un dogma e, come accade in molti Paesi occidentali, è utile che le persone si abituino a perdere il lavoro e, auspicabilmente, a trovarne un altro. A cambiare, insomma, cercando di migliorarsi, ad apprendere continuamente, restare occupate o occupabili.
In Italia, larga parte del mondo sindacale e del mondo politico sono sempre ancorati alla concezione che punta a difendere il posto di lavoro più che il lavoratore. Come se le fabbriche ci fossero sempre state e dovranno esserci sempre, quasi fossero icastici monumenti da tutelare dinanzi allo scorrere del tempo.
Invece non sarà più così: le fabbriche che producono telefoni fissi diminuiranno, mentre cresceranno gli stabilimenti che assembleranno cellulari e tablet. Questo significa che non si potrà sic et simpliciter difendere il posto di lavoro di chi produceva cose che non servono più, ma occorrerà garantire a quei lavoratori la possibilità di essere di nuovo, potenzialmente, riassumibili da qualcuno. Per fare questo esistono le cosiddette «politiche attive», ovvero quell’insieme di azioni mirate alla formazione e al sostegno dei soggetti alla ricerca di una collocazione lavorativa.
Anche qui – non per essere esterofili, ma volendo comparare la nostra condizione a quella dei vicini di casa – dobbiamo dire che siamo agli ultimi posti delle classifiche: spendiamo per questa voce circa cinque miliardi di euro ogni anno, contro i 14 della Germania e i 16 della Francia. E questo fa sì che l’occupazione giovanile in Italia sia di sette punti percentuali inferiore alla Francia e di otto alla Germania, dal momento che i giovani tedeschi che alternano formazione (o studio) e lavoro sono cinque volte quelli italiani. Le politiche attive sono concettualmente l’esatto contrario del sussidio, che consiste in un beneficio economico erogato senza che vi sia, accanto, un servizio accessorio di formazione o di aiuto alla ricerca di un nuovo posto di lavoro. Da noi la percentuale di risorse spese in sussidi sul totale della spesa per politiche di sostegno all’occupazione è il doppio della media europea e questo riflette un atteggiamento culturale decisamente arretrato. Il nostro sistema è dunque pensato e modellato su «situazioni tipo» che non esistono più. Venti o trent’anni fa un’azienda poteva subire un breve periodo di crisi dovuto a fattori spesso esogeni e il sistema pubblico degli ammortizzatori sociali correva in soccorso dei lavoratori con la Cassa integrazione guadagni, la quale assicurava un beneficio monetario a quei soggetti che in via temporanea erano sospesi dall’attività lavorativa. Passata la crisi, la Cassa veniva sospesa e il soggetto ritornava attivo. In un periodo come questo, le aziende che vivono crisi passeggere sono sempre meno e i periodi di sospensione dal lavoro sono ogni volta prodromici alla chiusura degli stabilimenti o al loro trasferimento presso mercati più appetibili. Il risultato è che la Cassa integrazione guadagni funziona ancor oggi come uno strumento di accanimento terapeutico: si spendono molti soldi auspicando una ripartenza che non ci sarà e si chiudono gli occhi davanti al fatto che quei lavoratori andrebbero riconvertiti attraverso processi di riqualificazione formativa, mentre quelle stesse aziende potrebbero forse esse stesse essere accompagnate in un processo di trasformazione in grado di scongiurare la chiusura. Ma, come ben sa chi vive la trincea del lavoro, la rigidità genera rigidità. E così a un impianto normativo rigido e poco incline ai cambiamenti corrisponde, quantunque in parte modificato, un uguale sistema di ammortizzatori sociali: molto costoso, inefficace e poco orientato ai bisogni di lavoratori e aziende.

Massimo Blasoni
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Divieto di assumere

Tratto dal libro “Privatizziamo! Ridurre lo Stato, liberare l’Italia” di Massimo Blasoni

«Divieto di assumere»: non si tratta di un paradosso ma del tentativo di spiegare il comune sentire percepito da imprese e lavoratori nel nostro Paese. I licenziamenti e le mancate assunzioni di questi anni non sono solo – giova ribadirlo – la conseguenza di una strutturale crisi economica, né possono essere semplicemente imputati all’aggressività delle imprese. Sono, anzi, il frutto di un sistema antiquato, barocco e fortemente burocratizzato che pone in capo a chi deve assumere e creare occupazione un quesito amletico: mi conviene o è meglio rinunciare? Non si assume essenzialmente perché le leggi che regolano i rapporti di lavoro sono eccessivamente rigide e, oltre al costo economico, vi è un costo normativo ormai insostenibile.
Qualcuno dovrebbe spiegare ai sacerdoti dell’articolo 18 (che vorrebbero ripristinare per tutti) che in un Paese in cui è difficile licenziare diventerà sempre più difficile e sconveniente assumere. L’articolo 18 va superato con riferimento a tutti i lavoratori. Gli interventi messi in campo da diversi governi sul fronte degli incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato sono palliativi.

C’è poi il dato della totale incertezza normativa e giudiziaria in cui un imprenditore è costretto a muoversi. Prendiamo a paradigma il caso dell’apprendistato, che in Europa è considerato unanimemente lo strumento con cui garantire ai giovani un accesso intelligente al mercato del lavoro e, contestualmente, un riallineamento delle proprie competenze (la scuola spesso non insegna ciò che serve) con quelle richieste dal mercato. Dalla riforma Biagi del 2003, però, questo istituto ha subito ben dieci interventi correttivi di natura legislativa, tre modifiche attraverso decreti ministeriali,17 circolari interpretative e 30 tra note e interpelli. Per tacere del groviglio improduttivo di disposizioni riguardanti la formazione, spesso emanate più per far felici i formatori che i formati. In una condizione di questo tipo, difficilmente un imprenditore con un minimo di buonsenso si azzarda ad assumere un ragazzo con un contratto di apprendistato finalizzato all’assunzione.

Massimo Blasoni
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L’un contro l’altro armati

Tratto dal libro “Privatizziamo! Ridurre lo Stato, liberare l’Italia” di Massimo Blasoni

La Repubblica italiana, come scrive la Costituzione, «è fondata sul lavoro». Il nostro mercato del lavoro, invece, è fondato sul conflitto.Non solo conflitto tra rappresentanti dei lavoratori e imprenditori,o anche tra le diverse sigle sindacali. Oggi si deve fare i conti anche e soprattutto con un conflitto virtuale – ma gravido di effetti reali– tra lavoratori. Se in estrema sintesi volessimo definire il nostro mercato del lavoro, probabilmente basterebbe una parola: duale. Quella che stiamo vivendo è, per dirla con le parole di uno studioso assai moderato come Pietro Ichino, una «condizione di apartheid» che grazie a una legge del 1970 (lo Statuto dei lavoratori e il suo articolo 18) separa milioni di lavoratori dipendenti protetti (tutti i dipendenti pubblici e i dipendenti delle aziende private con più di 15 addetti assunti ante Job Act), i quali non possono essere licenziati se non per «giusta causa», da milioni di lavoratori, ugualmente dipendenti di piccole aziende o assunti dopo la modifica dell’articolo 18, che invece possono essere lasciati a casa e che nei fatti portano sulle loro spalle tutto il peso della flessibilità. Una sorta di Giano bifronte. È questo un modello che non ha eguali in Europa e che produce distorsioni davvero macroscopiche. Meglio sarebbe parificare la situazione dei lavoratori rendendo valide per tutti le previsioni di legge relative ai nuovi assunti.
Chi ha un posto comunque sicuro e garantito è poco propenso a migliorare il proprio contributo nell’azienda in cui presta servizio, ovvero non trova alcun vantaggio nel perfezionare la propria professionalità per rendersi disponibile sul mercato e spuntare condizioni migliori.
Siccome in Italia il lavoro è regolato parossisticamente e costa molto, per cercare di rimanere almeno un po’ competitivi, i vari governi hanno sempre operato le cosiddette «riforme al margine».
Si sono, pur evitando la vera sfida di una riforma di sistema, cioè inserite nel sistema dosi anche minime di flessibilità, prevedendo nuove forme contrattuali come quella dei contratti temporanei o atipici (interinali, co.co.pro, ecc.). Oggi il discrimine è tra vecchi e nuovi assunti. Dal punto di vista politico la ratio è chiara: si evita uno scontro lacerante con i sindacati sul tema dei diritti acquisiti di chi un lavoro ce l’ha già e contestualmente si forniscono alle imprese modalità di attivazione di contratti più flessibili. È una scelta particolarmente miope perché chi era garantito prima oggi lo è ancor di più e tutto il peso della flessibilità necessaria viene scaricato sulle spalle dei pochi neoassunti, principalmente giovani: i forti finiscono per essere più protetti e i deboli per essere più esposti al rischio. Si consideri un altro aspetto non marginale. Oltre al dualismo tra protetti e non protetti, tra stabilità e precarietà, c’è un ulteriore conflitto, ora latente, destinato prima o poi a esplodere: si tratta di quello tra lavoro pubblico e lavoro privato. Se un’azienda chiude, i lavoratori vengono lasciati a casa (abbiamo visto con quanta disparità di trattamento), mentre se chiude un’istituzione (ad esempio, le province) tutti ammettono che in realtà i costi del personale si debbano spalmare su altre amministrazioni, perché i soggetti che lavorano in quegli enti vanno obbligatoriamente ricollocati nel comparto pubblico. Non vi è alcuna ragione che spieghi questa ipertutela: sarebbe come stabilire che la chiusura di uno stabilimento Fiat determini l’obbligatoria assunzione di tutti i suoi dipendenti in una fabbrica italiana della Volkswagen (ammesso per assurdo che la Volkswagen scelga di investire in Italia). Il lavoro pubblico – da ridursi nell’ottica di Privatizziamo! – deve doverosamente avere regole che ne garantiscano trasparenza e terzietà e questo aspetto può essere ampiamente soddisfatto con procedure di ingresso concorsuali rigorose. Ma per quale arcano motivo quando un soggetto entra a far parte del novero dei dipendenti pubblici dovrebbe diventare «illicenziabile» a vita? Questo genera una pessima allocazione delle risorse all’interno del sistema e produce effetti pratici che in nessuna azienda privata sarebbero sostenibili.

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LO STATO AVARO COSTA 3,7 MILIARDI ALLE PMI

IL TEMPO, 25 settembre 2019

3,7 miliardi di euro. Tanto è costato lo scorso anno alle imprese italiane anticipare il credito necessario a pagare dipendenti e materie prime per fornire beni e servizi alla Pubblica Amministrazione in attesa di essere saldate. Questa stima è stata effettuata mettendo in relazione i dati di Bankitalia sullo stock complessivo dei debiti con il costo medio del capitale che le imprese hanno dovuto sostenere per finanziare i ritardi di pagamento della PA, con modalità che vanno dallo sconto fatture al factoring, agli sconfinamenti e così via.

È ovvio: se per fornire la Pubblica Amministrazione l’imprenditore ha dovuto pagare materiali e dipendenti e non viene a sua volta saldato non può che rivolgersi al sistema bancario. Un sistema di norma piuttosto costoso e a cui non è facile accedere soprattutto per le piccole e medie imprese. I ritardi finiscono per rappresentare una vera e propria tassa occulta che rende ancora più ardua la competizione con le aziende di Paesi come la Francia e la Germania che hanno tempi di pagamento della PA, e dunque costi finanziari, che sono mediamente la metà dei nostri. Secondo il recente European Payment Report 2019 di Intrum Justitia, quanto a tempi di pagamento siamo terz’ultimi in Europa, seguiti solamente da Portogallo e Grecia. I ritardi non contribuiscono affatto a migliorare il rapporto di fiducia tra Stato e impresa. Insomma, le tasse vengono richieste ai cittadini e incassate con scadenze precise ma lo Stato invece paga quando vuole, in sostanza finanziandosi parzialmente a spese del sistema produttivo.

Lo stock di debiti della PA verso le imprese italiane è stimato da Bankitalia in 53 miliardi per il 2018. Una cifra ingentissima che rappresenta un rilevante freno per il nostro sistema produttivo. Il calo rispetto all’anno precedente è di appena quattro miliardi di euro. Liquidare con operazioni spot i debiti pregressi non riduce infatti lo stock complessivo poiché i debiti commerciali si rigenerano costantemente, essendo beni e servizi forniti di continuo. Le imprese italiane sopportano tasse rilevanti, una burocrazia oppressiva e una giustizia civile assai lenta. Sarebbe auspicabile che fossero almeno esentate da questa sorta di tassa occulta.

Massimo Blasoni

Imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro
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IN ITALIA CAMBIANO CONTINUAMENTE I GOVERNI MA LA CORSA VERSO LO SFASCIO NON RALLENTA MAI

ITALIA OGGI, 25 settembre 2019

La politica nazionale conta? Ovviamente, ma molto meno che in passato e soprattutto il mutare di orientamento dei governi che si succedono non sembra avere effetti significativi almeno sulle tasse che paghiamo e sulla crescita del debito. Insomma, al di là delle dichiarazioni roboanti dei sette governi che abbiamo avuto dal 2006 ad oggi, la pressione fiscale è rimasta sempre in uno strettissimo corridoio che va dal 41,5% del 2007 all’attuale 42,1%. Modestissime differenze ben poco condizionate dai diversi orientamenti: siamo passati dal centro-destra al centro-sinistra fino all’ultimo governo giallo-verde.

Anche la crescita del debito nel periodo ha conosciuto una progressione sostanzialmente omogenea, indipendentemente dal colore politico di chi governava. Questo non vuol dire che le scelte dei partiti non ricadano pesantemente su ognuno di noi ma ciò avviene non come un tempo, soprattutto al nord. Nell’economia globale finiscono per prevalere decisioni e indirizzi che vengono assunti in consessi più ampi. Qualche esempio?

All’ambito nazionale è sottratta la politica monetaria. Un tempo la moneta poteva essere svalutata in una notte, oggi le scelte sull’euro non si fanno certo a Roma. I partiti peraltro controllavano il sistema bancario, con tutto quello che ne consegue. Dalla Banca Nazionale del Lavoro al Banco di Napoli, dal Monte dei Paschi di Siena all’Istituto Bancario San Paolo di Torino, la nomina dei CDA competeva all’ambito politico. Oggi non è più così e i parametri europei di concessione del credito in ogni caso rendono molto più difficile elargire denaro facile a sodali e conoscenti. Sono lontani i tempi in cui le assunzioni nel pubblico impiego erano migliaia e servivano ad appagare le rispettive clientele e i parametri europei limitano di molto gli aiuti di Stato al sistema delle imprese.

Stare in Europa vuol dire accettarne le regole, che tradotto significa che incrementare fuori misura deficit o debito comporta sanzioni. E anche se il nostro debito pubblico è in costante crescita sono lontani gli anni ‘80 in cui il deficit annuo raggiungeva anche il 14% del Pil. In definitiva, la signoria dello spread rende di fatto impossibile assumere decisioni che i mercati giudicano radicali o eccessivamente populiste. Il confronto tra i partiti, soprattutto negli ultimi mesi, ha dato un’idea della politica fortemente drammatizzata. C’è molto della soap opera con colpi di scena, fidanzate esibite, performance balneari e cambiamenti di fronte. Occorre forse che tutti rimettano i piedi per terra e si chiedano cosa concretamente possano fare nei limiti che gli sono concessi.

Massimo Blasoni
Imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro
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L’EMERGENZA DEL PAESE È IL CALO DELLA PRODUTTIVITÀ

IL TEMPO, 9 agosto 2019

Il calo della produttività è forse il primo problema del nostro Paese. Se negli anni ’70 il sistema manifatturiero italiano lasciava al palo molte delle economie comunitarie con una brillante crescita annua della produttività, il ritmo è vistosamente rallentato nei due decenni successivi e dagli anni 2000 siamo purtroppo scivolati in fondo alla classifica. L’incremento della produttività è passato dal 6,5% del 1972, ben al di sopra del 4% tedesco, sino a ridursi a un mediocre 0,14% medio annuo nell’ultimo quinquennio: secondo l’OCSE solo la Grecia ha fatto peggio di noi nel periodo.

I motivi della nostra perdita di efficienza sono molteplici: innanzitutto la scarsa flessibilità del mercato del lavoro. In Italia è difficile assumere e licenziare ma soprattutto premiare il merito. Sopra i 3.000 euro ogni incentivo economico volto ad accrescere il rendimento soggiace ad un elevatissimo cuneo fiscale che sostanzialmente dimezza la quantità di denaro disponibile per il lavoratore. Contratti troppo rigidi poi tendono a disciplinare l’orario di lavoro molto più che a valutare il numero e la qualità delle prestazioni rese in quel medesimo tempo. La spirale negativa della scarsa crescita determina minori opportunità che spingono una parte significativa dei giovani laureati italiani a cercare fortuna all’estero, così sottraendo capacità e competenze al sistema produttivo del Paese. Non aiutano nemmeno – in un mondo ormai sempre più digitale – la vocazione più umanistica che scientifica delle nostre Università così come l’assenza di una relazione virtuosa tra formatori e imprenditori che migliori il matching tra domanda e offerta.

Vi sono problemi noti, che vanno dalle tasse all’accesso al credito e alla burocrazia, ma occorre non sottacere anche la scarsa disponibilità delle nostre imprese ad investire in innovazione, con l’effetto di aumentare la distanza che ci separa dalle economie più dinamiche. La bassa spesa in ricerca e sviluppo è purtroppo una caratteristica anche della Pubblica Amministrazione: una percentuale che non supera l’1,3% del Pil contro il 2% della media UE ci relega agli ultimi posti in Europa. Ai modesti investimenti in R&S purtroppo si somma una forte contrazione delle risorse per l’innovazione di infrastrutture fisiche e soprattutto digitali. Negli ultimi dieci anni la spesa pubblica per investimenti fissi lordi in Italia è passata da 54 a 34 miliardi, mentre quella corrente continua a crescere: un errore che rischiamo di pagare a caro prezzo. Gli ultimi dati Istat segnalano però un incremento dell’occupazione. Una nota positiva? Solo in apparenza. A ben vedere la mancata crescita del Pil accompagnata dall’aumento del numero delle ore lavorate è anche un segnale di ulteriore perdita di produttività, purtroppo.

Massimo Blasoni

Imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro

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Il lavoro

Tratto dal libro “Privatizziamo! Ridurre lo Stato, liberare l’Italia” di Massimo Blasoni

Il lavoro e l’impresa sono due facce di una medaglia. Ovvero, con altre parole, rappresentano l’insieme dei produttori, dunque di coloro al servizio dei quali andrebbe posto ogni intervento legislativo e amministrativo perché dalla loro attività deriva la crescita del Paese e il benessere dei singoli.
Non sempre è così, tutt’altro. Con franchezza bisogna, però, riconoscere che vi sono anche responsabilità sia delle imprese sia dei lavoratori che si assommano a leggi astruse e scelte politiche sbagliate.

Il peggior mercato del lavoro in Europa

Nel 2001 Marco Biagi definiva quello italiano «il peggior mercato del lavoro europeo». Colpa di tassi di occupazione molto bassi, di regole complesse e spesso fuori dal tempo. Otto governi e 14 anni dopo la situazione non sembra essere migliorata di molto. A fine anni Novanta il tasso di occupazione in Italia era pari al 51%: nove punti in meno rispetto alla media dell’Unione Europea a 15 Stati.
Oggi il tasso di occupazione è salito di quattro punti percentuali (55%), ma la differenza rispetto ai competitor europei è rimasta invariata. Continuiamo a essere, quindi, uno dei Paesi con meno gente attiva al lavoro e questa caratteristica assume i contorni di una vera e propria patologia strutturale se guardiamo ai dati relativi ai giovani: oltre il 40% degli under 25 italiani è senza lavoro (contro una media europea del 22%) e, cosa ben più preoccupante, non si arresta il fenomeno dei Neet (not in employment, education or training).
La quota di ragazzi che non hanno un’occupazione e, al tempo stesso, non sono a scuola o non seguono un percorso di formazione si attesta al 26,4% della popolazione giovanile con punte del 35% nelle regioni del Mezzogiorno (fonte Istat).
Il deterioramento delle condizioni economiche generali ha messo ancor più in luce la difficoltà che il nostro Paese riscontra nell’offrire a imprenditori e lavoratori un mercato del lavoro equo,dinamico, meritocratico, capace di rispondere con rapidità ai mutamenti di scenario. Dal 1996 a oggi i modelli produttivi si sono profondamente trasformati e questo dato è comune alla stragrande maggioranza dei Paesi europei. Per l’Italia avrebbe dovuto rappresentare un grande vantaggio e uno stimolo a promulgare celermente quelle riforme che tutti i Paesi erano chiamati ad adottare. Dalla fine degli anni Novanta a oggi, nel resto d’Europa si sono messe in cantiere importanti riforme che hanno inciso sulle dinamiche e sulla qualità del mercato del lavoro. L’Italia non è stata da meno, realizzando almeno quattro grandi interventi legislativi (Treu, Biagi, Fornero e Jobs Act), incapaci tuttavia di dirimere le contraddizioni antiche del nostro sistema, quantunque vada riconosciuto che soprattutto la riforma Biagi, seppur mai completata, ha garantito una discesa rapida dei tassi di disoccupazione e il numero più elevato di persone al lavoro degli ultimi vent’anni. Le riforme
hanno inciso in maniera limitata per la difficoltà precipuamente italiana ad applicare con rapidità le norme che il Parlamento licenzia.
È successo quindi che gli altri Paesi hanno dato corso alle riforme e le hanno implementate mentre qui, dopo qualche conferenza stampa di presentazione dei nuovi interventi governativi, si è perso tempo nell’attuazione pratica di quei dispositivi. Oppure, melius re perpensa, si sono adottate modifiche volte a edulcorare i provvedimenti assunti. Si guardi, a paradigma, alla riforma Fornero del 2011: nel 2014 erano già sette le modifiche sostanziali che vi erano state apportate.
C’è poi chi sostiene anche la tesi contraria, e cioè che il nostro mercato del lavoro sia messo così male a causa di una profonda sofferenza del nostro sistema produttivo (manifatturiero in particolare).In questi casi si cita spesso la frase: «non si crea lavoro per decreto». È forse una massima ben fondata, ma va ricordato che per decreto si può anche distruggere il lavoro che c’è o che ci sarebbe, e ne sono prova i disastrosi risultati della riforma Fornero che, irrigidendo gli strumenti con cui gli imprenditori potevano assumere, ha finito per scoraggiare le imprese, facendo aumentare pure il numero di rapporti risolti o mai avviati. Né il Jobs Act pare salvifico: tutt’altro, ha infatti facilitato la stabilizzazione dei rapporti più che nuove assunzioni. Non è vero che la crescita del pil da sola traina l’occupazione: l’aumento della ricchezza prodotta è un dato necessario, ma non sufficiente. I Paesi dove le politiche del lavoro funzionano meglio (dove c’è un mercato del lavoro dinamico, dove vi sono le politiche attive più funzionali, ecc.) sono anche quelli in cui l’occupazione è proporzionalmente calata meno rispetto allo scadimento del pil.
A questa condizione già di per sé delicata si è poi aggiunta la inadeguata riforma del titolo V della Costituzione – in parte rivista – che ha avuto, in tema di lavoro, un impatto devastante. Mentre in Europa le politiche di indirizzo sono affidate al livello nazionale e l’organizzazione dei singoli servizi è demandata alle istituzioni locali, in Italia si è scelta una via completamente in controtendenza: il cosiddetto «federalismo» ha infatti attribuito potere di indirizzo e risorse per l’attuazione alle regioni, spesso sprovviste della visione e delle competenze necessarie per affrontare un tema così complesso. Il risultato sono 20 sistemi tutti disallineati, che non comunicano, che hanno banche dati separate e che implementano misure e strumenti di monitoraggio completamente diversi tra loro.

Massimo Blasoni – Imprenditore e Presidente del Centro studi ImpresaLavoro
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