LIBERO, 3 Gennaio 2019 – Intervento di Massimo Blasoni
Si profila purtroppo un 2019 complicato per le imprese italiane e le previsioni di bassa crescita, se non di recessione, del nostro Pil rischiano di avverarsi. Tra i tanti, resta rilevante il problema del credito bancario, lo avvalorano gli ultimi dati disponibili di Banca d’Italia relativi al 2018. Se comparati con quelli del 2011 rivelano che lo stock complessivo dei prestiti alle imprese è sceso da 909 miliardi di euro a 695. Una riduzione di oltre 200 miliardi che solo in parte trova spiegazione nel ridotto merito creditizio o nella minore disponibilità a nuovi investimenti delle nostre aziende. In realtà le bariche sono meno inclini a rischiare, con l’effetto che la minore disponibilità di linee di credito concorre a frenare lo sviluppo e l’occupazione.
La conclusione del Quantitative Easing, con cui la Banca centrale europea acquistava per decine di miliardi i bond emessi dai singoli Paesi europei, rischia di aggravare il problema. Dobbiamo ricordare che i titoli di Stato italiani erano i terzi per volume di acquisti da parte della Bee: 3,6 miliardi al mese, pari al 16,2% del complessivo. La fine di questo flusso prevedibilmente aumenterà i tassi di interesse e renderà ancora più debole il sistema economico italiano. Le responsabilità degli istituti di credito rappresentano solo uno degli ostacoli per la competitività delle nostre imprese; ovviamente ci sono anche l’eccesso di burocrazia, gli scarsi investimenti pubblici in infrastrutture, la mancata digitalizzazione e molto altro. Bisogna peraltro riconoscere che sono in ripresa i prestiti alle famiglie e che le banche debbono far fronte all’enorme perdita di valore delle loro azioni in borsa.
Dall’inizio della crisi ad oggi le banche quotate hanno bruciato 215 miliardi. Tuttavia è chiaro che la restrizione del credito rende più complesso il lavoro delle imprese italiane, basti dire che in Germania e Francia dal 2011 ad oggi i prestiti alle aziende sono aumentati: per i cugini d’oltralpe di oltre 90 miliardi. Senza lo sviluppo delle nostre imprese non ci sono né crescita né nuova occupazione. Un fatto evidentemente non del tutto compreso anche dal governo a guardare l’ultima manovra che riduce gli stanziamenti per il sistema produttivo.
Massimo Blasoni Imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro
Il livello alto e soprattutto poco produttivo della nostra spesa è un fatto assodato. È pletorico ricordare le diecimila sedi ministeriali o i costi di un sistema pensionistico troppo generoso nel passato e di un esorbitante impiego pubblico. Non serve rammentare la sua crescita inarrestabile dal dopoguerra a oggi e la sequela di sprechi di cui la maggioranza di noi ha di norma un’esperienza diretta. Tanto per dare un’idea il rapporto tra spesa e pil era del 31% nel 1937 e rimase stabile nei decenni successivi arrivando a superare la soglia del 40% solo alla fine degli anni ’70. Il rapporto crebbe ancora negli anni successivi e la spesa arrivò a rappresentare il 50% dell’intero prodotto interno lordo. Al di là dell’enorme dimensione della spesa, quello che va rimarcato è l’incapacità italiana di porre un freno al suo incremento malgrado la grave crisi. La spesa pubblica aumenta in Italia in rapporto al pil dal 47,8% del 2008 al 51,1% del 2014: un balzo in avanti, durante la crisi, di 3,3 punti percentuali e superiore alla media dei Paesi dell’Unione Europea (+1,6%). La Spagna fa meglio di noi (+2,5%) e la Germania rimane sostanzialmente stabile. Scende invece il Regno Unito che riesce a tagliare la sua spesa di 2,2 punti percentuali sul pil. Questi dati tengono conto degli interessi sul debito perché se il riferimento fosse alla spesa primaria si dovrebbe rilevare che siamo tra i pochissimi in Europa che la vedono in aumento. Se poi dalle percentuali sul pil passiamo ai valori assoluti ci accorgiamo che la nostra spesa è passata da 780 miliardi nel 2008 agli 826 del 2014. Colpisce che vi sia incremento, malgrado gli investimenti scendano. Insomma cresce molto la parte corrente (stipendi, pensioni, acquisto di beni e servizi) e si riduce invece quella per investimenti (strade, infrastrutture). In questo stesso periodo l’Italia ha tagliato del 30% la spesa pubblica per investimenti, che è passata dai 54,2 miliardi ai 38,3 dello scorso anno. Mentre Germania e Francia sono rimaste stabili (con una contrazione rispettivamente dello 0,1% e dello 0,3%). Dunque spendiamo di più per la gestione corrente che per ammodernare il Paese e, anzi, i costi pubblici crescono malgrado il forte taglio degli investimenti. Pare interessante capire anche quali voci di spesa aumentino e quali si riducano. Dal 2008 al 2014 – il periodo di riferimento – si è tagliata la spesa per l’istruzione di sei miliardi (da 71 a 65) che invece nell’area euro è cresciuta. Si è anche ridotta di 1,8 miliardi la spesa per la cultura, mentre sono salite quelle per la salute e per la sicurezza. In crescita anche la spesa per le politiche sociali (+30% gli invalidi civili) e quella per le pensioni e per l’impiego pubblico. Il confronto con Paesi come il Regno Unito è impietoso. Lì la spesa pubblica primaria è stata effettivamente ridotta. E i livelli di crescita sono decisamente superiori ai nostri. Il governo di David Cameron ha ridotto tra il 2010 e il 2013 la spesa di una quantità che, tradotta in termini italiani, equivale a 16 miliardi di euro l’anno. In un triennio sono quasi 50 miliardi di minori spese. Oggi l’economia britannica, nonostante sia stata colpita da una crisi finanziaria più grave di quella che ha investito l’Italia, cresce tra il 2 e il 3% annuo. In Italia la crescita non ha superato lo 0,9% nel 2015. Da noi la spending review è rimasta nel cassetto. Prima i dieci incaricati da Padoa-Schioppa, poi nel 2012 Enrico Bondi, poi Piero Giarda per arrivare con il governo Letta a Carlo Cottarelli e ora a Yoram Gutgeld e a Roberto Perotti con Renzi Presidente del Consiglio. I commissari alla revisione della spesa sono stati molteplici negli ultimi anni, ma i risultati sono ben scarsi. Ovvero nulli, almeno a vedere il segno «più» sui dati di bilancio alla voce uscite. Cottarelli stimò una possibile contrazione strutturale dei costi (cioè durevole nel tempo) in 42,8 miliardi annui. Un obiettivo certamente ambizioso. Se si fosse avuto, più modestamente, un andamento della spesa primaria pari a quello della media della zona euro dal 2010 a oggi, il risparmio sarebbe quest’anno di una trentina di miliardi. L’Italia invece, pur la più indebitata, ha visto crescere i propri costi. E non di poco. Perché in Italia è tanto difficile ridurre la spesa? Il vero motivo risiede nel grande spazio che Stato, regioni e comuni, in una parola la politica, occupano nell’economia nazionale. Fintanto che quello spazio non verrà drasticamente ridotto, la spesa potrà essere contenuta, ma non scenderà abbastanza da consentire il taglio significativo delle tasse. Lo Stato che spende non brilla affatto per oculatezza e se la spesa è improduttiva non genera effetti moltiplicatori. Quegli stessi denari in mano a famiglie e imprese, di norma, sarebbero invece un volano per l’economia perché spesi meglio e più rapidamente. Pensandoci, non è infondata la massima di Friedman: «Quando spendi i tuoi soldi per te, usi la massima attenzione; quando spendi i tuoi soldi per gli altri, stai attento a quanto spendi, ma non alla qualità di cosa compri; quando spendi i soldi degli altri per te, stai attento a cosa compri, ma non a quanto spendi; quando infine spendi i soldi degli altri per gli altri, spesso non ti interessa né cosa compri né quanto spendi». Come spesso avviene quando a comprare è lo Stato.
In sé il debito non è tout court negativo. Risorse temporaneamente spese anche in deficit per l’ammodernamento infrastrutturale, per opere strategiche, possono corroborare la crescita di un Paese. Diventa invece una terribile zavorra se le sue dimensioni sovrastano il pil e se con quei denari, anziché creare condizioni di innovazione e sviluppo, si è nutrita una spesa inefficiente e l’inclinazione a risolvere problemi e tensioni sociali spendendo più di quello che si incassa, malgrado un’imposizione fiscale enorme, come quella italiana. L’espansione del debito pubblico è un dato comune a tante democrazie occidentali. In un loro ormai classico studio, James Buchanan e Richard Wagner parlarono di «democrazie in deficit», mostrando le ragioni strutturali che inducono le classi politiche a espandere la spesa senza ricorrere soltanto alla tassazione, ma dilatando il debito. Sostengono, infatti, che ogni forza di governo non indifferente al consenso e al progetto di restare al potere non possa che adottare in qualche modo tale strategia. Ovviamente queste scelte di spesa finanziate dal ricorso al prestito, se smodate, penalizzano le generazioni a venire, ma nel breve periodo (quello che conduce alle elezioni) evitano di accrescere la pressione fiscale ovvero di ridurre la spesa pubblica e urtare in tal modo i cittadini elettori. Questo è vero un po’ ovunque e non a caso il debito pubblico è un tratto comune di situazioni molto diverse. D’altra parte, la spesa pubblica ha avuto un ruolo importante dopo il crollo di Wall Street del 1929 e nelle prime fasi del dopoguerra europeo, per fare qualche esempio. In Italia, però, il debito ha assunto un carattere abnorme (superiore al 130% del pil) a causa della particolare inadeguatezza dei governi, che ne hanno abusato oltre misura e anche a causa di squilibri sociali e territoriali cui si sono date non già risposte di mercato, basate sullo sviluppo, ma semplicemente assistenziali. Ora però i nodi vengono al pettine. La situazione è resa ancor più drammatica dal fatto che al debito pubblico va aggiunto quello pensionistico, troppo spesso sottovalutato e che invece ha dimensioni perfino superiori. In definitiva, l’Italia non soltanto è esposta di fronte ai titolari dei bond di Stato, ma anche nei confronti di tutti coloro che in questi anni hanno versato contributi previdenziali che non sono stati accantonati e investiti allo scopo di finanziare la loro vecchiaia. Quei soldi sono stati non di rado utilizzati per attribuire pensioni a chi non ne aveva titolo o anche per altri scopi di natura «sociale» o pseudo tale: e così oggi i lavoratori si trovano costretti a versare contributi altissimi per offrire una previdenza, anche modesta, alla gran massa di persone anziane del Paese. Salvo rischiare di non ricevere in futuro la propria pensione. Non bisogna dimenticare, per giunta, che sul piano demografico dopo la Seconda guerra mondiale l’Italia ebbe un baby boom e ora quelle generazioni sono giunte alla terza e quarta età. Numericamente consistenti e politicamente assai dinamici (dal Sessantotto in poi), questi figli di un’Italia incapace di gestire con responsabilità la propria crescita hanno saputo strappare tutta una serie di «diritti sociali» che sono stati spesso elargiti anche in assenza di una vera copertura finanziaria. Il risultato è che un lavoratore che oggi entra nel mercato del lavoro deve dedicare una parte significativa del proprio anno lavorativo a finanziare il debito pubblico, che è stato accumulato da chi negli anni scorsi è vissuto al di sopra delle proprie possibilità, e le pensioni destinate a chi ha versato soldi che sono stati malamente utilizzati. Non è sempre stato così. I numeri che si raccolgono dal secondo dopoguerra mostrano che il nostro Paese è ripartito in condizioni di estrema sostenibilità del debito (valori addirittura inferiori al 40% del Pil fino ai primi anni Settanta), per poi vedere i propri conti messi in crisi dal deficit cumulato soprattutto negli anni Ottanta. In quell’ultimo decennio di Prima Repubblica, infatti, il rapporto tra debito e pil superò prima la soglia del 60%, per poi avvicinarsi rapidamente a quella del 100%, sfondata proprio in corrispondenza alla firma, travagliata, del Trattato di Maastricht del febbraio 1992, che consentiva al nostro Paese l’ingresso in Europa in cambio dell’impegno a ricondurre il rapporto debito/pil entro quel 60% in un lasso di tempo «adeguato». Proprio in quell’anno l’Italia si ritrovò nel mezzo della crisi finanziaria più grave del dopoguerra, con il governo Amato in piena Tangentopoli costretto alle misure più radicali e drastiche per risanare i conti pubblici, come quella di elevare il livello di tassazione, introdurre una patrimoniale sugli immobili (antesignana dell’Imu) e una anche sui conti correnti, tramite il prelievo a sorpresa, in una notte di luglio, del 6 per mille dai depositi degli italiani. Nonostante queste misure, il 16 settembre del 1992 in uno degli attacchi speculativi di maggior successo della storia, George Soros mise in ginocchio la lira costringendoci a una svalutazione del 30% e all’uscita dall’allora Sistema Monetario Europeo. La Seconda Repubblica ereditò quindi un debito pubblico al 120% del pil, ma riuscì a ricondurlo, grazie anche al contributo della crescita economica, al di sotto del 110% prima dell’avvento dell’euro, e fino quasi al 100% successivamente. La grave crisi di origine finanziaria che perdura dal 2007 ha però vanificato questi sforzi, riportando il rapporto tra debito e pil rapidamente al di sopra del 130%, il livello attuale. Ciò che è successo nel 2011 (lo spread, la lettera di Draghi a Trichet) ha a che fare con i mercati finanziari e la speculazione internazionale che, quasi vent’anni dopo, ha messo in ginocchio ancora una volta il nostro sistema di finanza pubblica, cogliendolo nuovamente «scoperto» dalle protezioni che sarebbero arrivate solamente più tardi, grazie agli interventi straordinari della Bce. Il nostro è, infatti, un debito pubblico che, specie dopo l’apertura del mercato dei capitali, non è solo in mani italiane. Con le ovvie conseguenze. Dunque, il crescere del debito è frutto di eccesso di spesa e di congiunture internazionali. Potremmo dire che il mondo della finanza internazionale non perdona: ha punito il nostro debito nel 2011 e nel 2012 così come vent’anni prima, e ora ci ritroviamo a incassare un suo peggioramento nel rapporto con il pil, che ha superato il vecchio record (fermo al 124% di vent’anni fa). Ma tutto ciò è accaduto evidentemente a causa di una situazione formatasi, come già accennato, in un periodo storico ben definito e ormai lontano, che può individuarsi soprattutto tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Novanta del secolo scorso, quando si è speso troppo. Restano tre dati. In primo luogo, nel Paese la spesa pubblica è stata sovradimensionata. Nel decennio 2000-2010 le regioni da sole hanno aumentato la spesa di 90 miliardi e, allo stesso tempo, la spesa dello Stato, complessivamente, è cresciuta. In secondo luogo, abbiamo speso spesso male, finanziando la cassa più che gli investimenti: scegliendo la logica del day by day, anziché innovare strutturalmente il Paese. In terzo luogo, infine, malgrado l’avanzo primario, il debito a causa del costo degli interessi continua a crescere e anche una robusta spending review (che pure ovviamente va fatta) non ne ridurrebbe le proporzioni in termini significativi, visto il periodo di scarsa crescita. Qualcuno crede che sia possibile rispettare il Fiscal Compact? Che sia possibile ridurre di decine di miliardi l’anno il debito pubblico? La spending review ha determinato risparmi non significativi: si è ben lontani dalle decine di miliardi l’anno che ogni recente governo si era ripromesso di conseguire. Anzi, la spesa al netto degli interessi negli ultimi tre anni è continuata a crescere: si sono ridotti gli interessi, non i costi dello Stato. Dunque, più che sul numeratore (debito pubblico) occorre lavorare sul denominatore. Cioè sullo sviluppo e sulla crescita del pil. In effetti, alla fine si è costretti a tornare sempre al punto di partenza: alla necessità che l’economia si rimetta in moto e si creino quindi condizioni strutturali che favoriscano l’azione degli imprenditori, attuali e futuri. Il giorno in cui l’Italia tornasse a vedere aumentare fatturati, profitti e occupazione, anche il nostro debito sarebbe giudicato diversamente e certo sarebbe più facile ridurlo. A lungo ci è stato detto che è l’entità del debito ad allontanare gli investimenti e a farci punire dai mercati. Questo è vero, ma solo in parte. Lo sviluppo Usa e di molti altri Paesi rende accettabili debiti sovrani di ragguardevole entità. Fa premio la crescita: per questo dobbiamo mettere al centro lo sviluppo e l’espansione della nostra economia e convincerci che l’unica soluzione è privatizzare e ridurre lo Stato
Dopo quelli di magistratura e sindacati, come tralasciare un accenno ai mali della nostra università? I nostri atenei costano, ogni anno, 10 miliardi e soffrono oggi di una profonda crisi di credibilità, in primo luogo per la difficoltà evidente a dialogare efficacemente con il mondo del lavoro. Il mismatch tra sistema scolastico – a tutti i livelli – e lavoro sta diventando pericoloso. Il 75% degli studenti universitari di questo Paese ritiene che il sistema accademico sia incapace di dare una preparazione volta a un efficace inserimento professionale Un terzo dei laureati che hanno trovato un’occupazione dopo aver concluso gli studi non svolge un lavoro per il quale è richiesta una laurea. L’inserimento di formule come il 3+2, triennio generalista e biennio specialistico orientato alla professionalizzazione, si è rivelato inefficace. Il percorso di professionalizzazione è ancora il gradino mancante, tanto che, terminata l’università, per una preparazione completa è richiesto un ulteriore livello di formazione, attraverso master o tirocini esterni. Puntiamo molto sul sapere e troppo poco sul saper fare. La nostra cultura prevalentemente idealista fatica a trasformarsi in tecnico-scientifica e a confrontarsi con le sfide reali. Intanto il numero delle immatricolazioni continua a calare (-20,4% negli ultimi 10 anni), mentre aumenta quello degli abbandoni (circa il 40% degli iscritti). I nostri atenei hanno oramai perso attrattiva anche verso l’estero. Sono pochissimi gli studenti stranieri che scelgono il nostro Paese per completare la propria formazione: solo il 3%. Le università del Regno Unito attraggono un 18% di studenti stranieri e la media Ocse è del 10%. Per contro, da noi è inarrestabile la fuga dei cervelli. Importiamo mano d’opera a bassa specializzazione ed esportiamo i nostri figli. L’operazione «rientro dei cervelli» intitolata nel 2009 a Rita Levi Montalcini – 6 milioni di euro per riportare in Italia le menti più brillanti – ha al suo attivo appena 29 scienziati rientrati in Patria. Concluso il bando del primo anno, gli altri non hanno ancora visto la luce. I ricercatori che ce l’hanno fatta a rientrare hanno ottenuto un contratto di tre anni, eventualmente rinnovabile per altri tre. E poi? Non è dato sapere. 95 università con oltre 330 sedi distaccate e 170mila insegnamenti sono i numeri di un sistema gravemente malato. Gli altri Paesi europei ne hanno in media la metà. Oltre 20 sono le nostre università sull’orlo della bancarotta, eppure si continua ad assumere e a bandire concorsi, che spesso creano idonei senza che ci siano posti disponibili. Il sistema è poi troppo segnato dal malcostume di baroni vicini alla settantina ancorati a una cattedra che frutta stipendi rilevanti. Accanto a loro, un folto esercito di assistenti e ricercatori attenti a non scontentare il barone di turno. Per giunta tale sistema universitario – è risaputo – favorisce i privilegiati e scoraggia i più meritevoli. In 25 delle 59 università statali italiane i rettori hanno familiari con qualche cattedra. Quasi il 50% ha almeno un parente stretto nell’università in cui presta servizio e quasi sempre è un altro docente. A Napoli, nella facoltà di Economia e Commercio dell’università Federico II, sono state rintracciate 140 parentele accademiche su un totale di 877 docenti. E che dire degli scandali che da decenni campeggiano sui quotidiani nazionali e che imbruttiscono ancor di più un sistema di istruzione già fortemente penalizzato? Già nel 1909 Benedetto Croce scrisse un polemico pamphlet, dal titolo Il caso Gentile e la disonestà nella vita universitaria italiana, nel quale lamentava fortemente che per una cattedra all’università di Napoli al filosofo siciliano fosse stato preferito uno studioso con titoli scientifici di gran lunga inferiori. L’iniquità dei nostri concorsi a cattedra è nota a tutti. I concorsi ad personam sono diventati una prassi tacitamente e universalmente accettata. Il clientelismo e la parentela contano più del merito. Non stupisce dunque che dal 1999 al 2007 il 90,2% dei docenti vincitori di concorso provenisse proprio dall’università che aveva messo a bando la cattedra. Come fanno le università a finanziare la ricerca se spendono per gli stipendi la quasi totalità dei fondi loro destinati? La risposta è patente: non lo fanno. Di pari passo, nelle graduatorie sulle migliori università del mondo i nostri atenei stentano a brillare. Nella classifica Qs World Universities Ranking 2014-2015 l’università italiana al primo posto è Bologna, piazzata al 182esimo (nel 2010 era la 176esima), seguita dalla Sapienza di Roma al 202esimo posto e dal Politecnico di Milano al 229esimo. Ai primi tre posti il Mit di Boston, Cambridge in Inghilterra e Harvard sempre negli Stati Uniti. La classifica tiene conto della capacità di produrre cervelli, della didattica, dei costi per gli studenti, delle pubblicazioni accademiche, del livello occupazionale degli studenti, della capacità di internazionalizzazione delle università. Purtroppo non eccelliamo in niente di tutto ciò. Oggi auspicare una riforma capace di cambiare radicalmente lo status quo ed estirpare caste e malcostume sembra pura utopia, anche perché ben poco possono le leggi dove corrotti sono i costumi. Che dire poi della proliferazione eccessiva – e quasi sempre ingiustificata – di mini facoltà, sedi distaccate e micro corsi, nati talora dall’esigenza politica di accontentare le ambizioni di una città o di un territorio in cambio di rinnovate alleanze, talora per giustificare questa o quella cattedra spesso ottenuta attraverso la procedura, tutta italica, dell’«idoneità multipla»? Tra il 2000 e il 2006 le università hanno bandito 13.232 posti per professori. Ne sono usciti 26.004 idonei. Più professori, più corsi, più fondi, più potere. A tutto discapito della qualità dell’offerta. In Italia ci sono decine di corsi di laurea che non arrivano nemmeno a 15 iscritti (qualcuno con un solo studente) e comportano costi elevatissimi e una quantità d’offerta inversamente proporzionale al suo pregio. In Italia esistono più di 20 facoltà di agraria. In Olanda, una. Facile pensare che lì sia concentrata l’eccellenza. L’abolizione del valore legale del titolo di studio, presa in considerazione ma mai attuata, avrebbe costretto le università a competere facendo emergere le eccellenze esistenti tanto dei corsi di laurea che della ricerca. Per contro, oggi una laurea conseguita in una nota università vale tanto quanto quella ottenuta dall’unico studente iscritto a Camerino. Negli Stati Uniti la scelta è tra Harvard, Yale, Stanford o una delle molte piccole università disseminate per il Paese. Ma laurearsi a Harvard, Yale o Stanford significa trovarsi una fila di aziende che competono per assumerti, mentre laurearsi in un’università di seconda o terza categoria comporta la concreta possibilità di restare disoccupato. Spesso, ed è un dato di fatto, i migliori tendono ad andarsene. In cerca di lavoro, ma anche di riconoscimento delle proprie capacità e di possibilità che in Italia non trovano. Inoltre, troppo frequentemente si è enfatizzata la «sacralità» dell’università che ha finito per essere una specie di luogo chiuso che pretende che la società si adegui ai suoi ritmi e non l’opposto. Ma le aziende non assumono persone che non hanno le abilità che ricercano. E quante volte qualche laureato si è trovato ad accettare lavori che con la propria preparazione accademica non c’entravano nulla? Che senso ha un sapere accademico che rischia di essere solo preservazione del passato se non diventa opportunità di lavoro e risorsa per il mondo produttivo? Infine, il tema della programmazione. Da liberali, è ovvio, va riconosciuta a ogni studente la possibilità di scegliere il proprio percorso universitario. Ma forse sarebbe necessario, quanto meno in termini di moral suasion, prospettare ai giovani quali sono gli spazi professionali e di mercato che sono richiesti e quali cicli di studio invece rischiano di tradursi in una probabile disoccupazione. Dire chiaramente agli studenti e alle loro famiglie che avevano sognato le professioni liberali quali garanzia di censo che oggi ci sono troppi avvocati non pare dirigismo, piuttosto buon senso. Non è un caso che tra il 2008 e il 2013 degli oltre 500mila italiani emigrati più della metà erano giovani.
tratto dal libro “Privatizziamo! Ridurre lo Stato, liberare l’Italia” di Massimo Blasoni
Scrivere di giustizia e magistratura non è semplice. Gli sberleffi alla politica sono usuali, ma chi di noi oserebbe altrettanto con un magistrato? La politica può essere dispensatrice di favori, ma non può agitare lo spettro del carcere: la massima tra tutte le afflizioni che lo Stato può infliggere al cittadino. Un sistema di pene è certo necessario, ma nel vasto e intricato – e perciò interpretabile – corpus di norme nessuno può essere veramente certo di non incorrere in qualche violazione penalmente sanzionabile. Chi non ha pensato – magari a ragione – di non essere intercettato almeno una volta? E chi non ha la sensazione che, sottesa all’astrattezza e generalità della regola, non ci possa essere talora qualche umana passione di chi è preposto ad applicarla? Credo politico, «corruzione di immagine», propensione a voler dar corpo al teorema ipotizzato non partendo dalle prove, ma cercando prove adatte: non sono pochi i novelli Torquemada del nostro recente passato. C’è anche l’altra faccia della medaglia, però. «Ci sarà pure un giudice a Berlino?» – diceva Brecht, e anche questo è il comune sentire. Perché la maggior parte di noi, come il mugnaio di Brecht, dovendo cercare giustizia si rivolge alla magistratura: dato che ne riconosce l’imprescindibile ruolo e l’importanza dei gesti coraggiosi compiuti da tantissimi suoi esponenti. Nella pubblica opinione uomini come Falcone e Borsellino, a giusto titolo, godono di un’alta reputazione. Luci e ombre, dunque. Vanno rilevate anche quest’ultime e resta legittimo il diritto di esprimere critiche. Anche la magistratura oggi è una corporazione: incline a difendere i suoi componenti, competitiva al suo interno, divisa incorrenti. Molti magistrati sono bravissimi funzionari, ma altri sono invece convinti di potere surrogare l’inazione vera o presunta del legislatore. Questo ben oltre la normale interpretazione giurisprudenziale. In sostanza, si ritengono legittimati a perseguire il (supposto) bene comune attraverso un’azione sussidiaria, quando non addirittura sostitutiva, di quella del legislatore. Un’attività svolta nell’ambito della propria giurisdizione e che, talvolta, sfocia in vere e proprie candidature elettorali. Candidarsi certamente non è vietato, ma certo induce a sospettare che chi è oggi esplicitamente di parte, ieri non fosse completamente imparziale. Magari quando giudicava quelli che oggi sono i suoi avversari politici. E se per la politica, per dirla con Antonio Gramsci, la magistratura è una casamatta del potere, bisogna anche dire che le forze politiche ben di rado hanno affrontato con successo il tema delle necessarie riforme del potere giudiziario. Quis custodiet custodes? Chi ha la forza di affrontare le doverose riforme? Eppure, ad esempio, ormai nell’opinione comune la separazione delle carriere tra magistratura inquirente e magistratura giudicante è considerata una condizione minima affinché si abbia un ordinamento giuridico funzionante. Accusa, difesa e un giudice terzo. Non è pensabile che il magistrato che il mese prima era accusatore, ora si erga a giudice. Passando d’emblée da un ruolo all’altro. Per giunta, i giudici giudicano se stessi, quasi in virtù di un privilegio medievale, e si autogovernano decidendo gli avanzamenti di carriera. Nessun soggetto terzo ne può valutare la produttività, che qualche volta è obiettivamente scadente. Hanno una propria polizia, la polizia giudiziaria, e a ogni tentativo – non sempre inverecondo – di proporre qualche riforma dell’ordine giudiziario il sindacato di categoria erige barricate insormontabili. Quanto a casta anche la magistratura autorevolmente si iscrive ai primi posti nella classifica dei privilegi. I giudici penali e civili avevano fino a pochi mesi fa 45 giorni di ferie, che diventano quasi tre mesi per quelli che hanno giurisdizione amministrativa: non è certo così per tutti i lavoratori in Italia. Possono svolgere attività extragiudiziarie lautamente retribuite. E le toghe fuori ruolo, cioè quelle che stanno facendo altro, continuano a percepire lo stipendio, al quale si aggiungono indennità per gli altri incarichi. Nel 2014 i fuori ruolo erano 277, malgrado i 1.400 posti vacanti negli uffici giudiziari, soprattutto nelle sedi disagiate. Tra loro ovviamente anche quelli che fanno politica e sono eletti. La progressione di carriera non è legata al merito, ma è automatica. Dunque, tutti fanno carriera e questo non è certo uno stimolo alla produttività. Chi vuole lavora, chi no si astiene. La spesa pubblica complessiva per i tribunali e la procura supera i 7,5 miliardi di euro ed è la seconda in Europa, i dati sono della Commissione europea sull’efficienza della giustizia. Potremmo aspettarci migliori risultati? Maggiore rapidità? È difficile pensare che la magistratura possa riformare se stessa. Per i motivi più volte esposti siamo inclini a sostenere le riforme che riguardano gli altri. Dunque, è molto difficile autoriformarsi. Tuttavia, una cosa è certa: i tempi dilatati e le inefficienze finiscono per avere conseguenze non solo su temi rilevantissimi (legati alle libertà individuali), ma hanno anche pesantissime ricadute economiche. Secondo il rapporto Doing Business 2015 della Banca Mondiale, la lentezza della giustizia, soprattutto civile, ci fa perdere un punto percentuale di pil all’anno e ci posiziona al 147esimo posto su 183 Paesi in quanto a tempi ed efficacia nella risoluzione dei contratti civili. Le nostre cause civili durano mediamente sette anni e questo non contribuisce certo ad attrarre investimenti in Italia. E se dei tempi della giustizia soffrono tutti i cittadini, per le imprese è forse ancora peggio. Pesano come macigni sull’economia ben quattro milioni di cause pendenti e contenziosi civili in primo grado con 590 giorni medi, contro i 264 della Spagna, i 311 della Francia e i 183 della Germania (fonte ancora la Commissione europea per l’efficienza della giustizia nel Consiglio d’Europa). Per le imprese straniere, è più che evidente, questo è uno tra i maggiori deterrenti a investire in Italia. Non si parli poi delle cause di lavoro. Secondo una recente indagine, in primo grado a Roma vi è una forbice che varia da 284 a 569 giorni, a Milano e Torino da 193 a 333 giorni. Nei fatti sono ancora necessari da poco meno di un anno a due anni per decidere se un licenziamento sia giustificato oppure no. Per una piccola azienda può significare il fallimento. Inoltre che dire degli scontri istituzionali tra governo e magistratura? Vengono in mente l’Ilva e l’acciaio italiano, dunque il rischio che scelte della magistratura possano mettere a repentaglio migliaia di posti di lavoro e un settore strategico. Certo le leggi vanno applicate, ma occorre operare con responsabilità. Resta da accennare alla sostanziale irresponsabilità civile dei magistrati. Sino al 2015 la responsabilità dei giudici era disciplinata per i casi di «dolo» e «colpa grave» dalla legge “Vassalli” (117/88) introdotta dopo un referendum che a larghissima maggioranza chiedeva vi fossero sanzioni anche per i magistrati che sbagliavano. In 27 anni di applicazione su 400 ricorsi si sono registrate solo sette condanne: meno del 2%. Forse perché è la corporazione a giudicare se stessa? La nuova norma introdotta nel 2015 sulla spinta di una sentenza della Corte di Giustizia europea del 24 novembre 2011 non pare cambiare di molto le cose. Perché la responsabilità dei giudici resta indiretta, cioè eventualmente prima paga lo Stato che poi si rivale. E, inoltre, affinché vi sia colpa grave, quindi sanzioni, il travisamento delle prove o dei fatti deve essere «macroscopico». Solo gli errori macroscopici, cioè mai. Questo almeno si può sospettare. E anche sulla obbligatorietà dell’azione penale ci sarebbe molto da dire in fatto di eccessiva discrezionalità. Occorre allora mettere mano a regole nuove che premino di più il merito, che rendano maggiormente responsabili i magistrati e ne incentivino la produttività e, anche con riferimento all’ordine giudiziario, abbiamo il dovere di domandarci perché un lavoratore privato debba rischiare il licenziamento e un’impresa ogni giorno la sua sussistenza, mentre resta un dogma l’illicenziabilità nel comparto pubblico?
tratto dal libro “Privatizziamo! Ridurre lo Stato, liberare l’Italia” di Massimo Blasoni
Sindacato, magistratura e università rappresentano ruoli e funzioni imprescindibili nella società. La tutela dei lavoratori, la garanzia di una giustizia basata sulla «terzietà» di chi l’amministra e la «conoscenza » aperta a larghi strati della popolazione sono conquiste relativamente recenti, sicuramente irrinunciabili. Ciò malgrado, oggi in Italia percepiamo, non del tutto a torto, questi ambiti anche come centri di potere, qualche volta autoreferenziali e certo poco inclini a vedere riformato il proprio ruolo in considerazione del mutare dei tempi. Peraltro, poco o per nulla disponibili ad accettare una verifica sulla propria efficienza.
SINDACATO
Il legittimo proposito di garantire tutela ai lavoratori si è via via
trasformato nel nostro Paese in qualcos’altro. Le battaglie sindacali
del primo Novecento e i moschetti di Bava Beccaris o le lotte dei braccianti
del Mezzogiorno contro i latifondisti non hanno nulla a
che vedere con le pensioni baby. Le tutele giuste e progressivamente
più forti sino agli anni Novanta si sono trasformate in qualcosa di
diverso. Qualche volta in una sorta di privilegio. Tutto questo fino
al paradosso di concertazioni tra sindacato e grandi imprese che
non tenevano in nessun conto le compatibilità economiche, ma si
risolvevano in semplici accordi politici. La produttività è costantemente
scesa nel confronto con gli altri Paesi europei e il solco tra
giovani e «vecchi» lavoratori si è via via allargato.
In tema di minor competitività delle imprese, e dunque del Paese,
sono molte le responsabilità dei nostri imprenditori e questo si
riflette sull’occupazione. La produttività e l’occupazione, però, non
sono facilitate dal sindacato che in Italia non brilla certamente per
flessibilità. Non solo, con diverse sfumature, i sindacati sono divenuti
una sorta di corpo dello Stato che accanto alla legittima difesa dei
lavoratori ha dimostrato di impegnare buona parte dei propri sforzi
nella difesa di rendite di posizione e di privilegi (non dissimili da
quelli della politica) dei propri esponenti.
In Italia, le società di mutuo soccorso di fine Ottocento contribuirono
senz’altro a che i diversi governi prestassero maggiore
attenzione al miglioramento delle condizioni lavorative degli operai.
Grazie sostanzialmente alla loro pressione, il ministro degli Interni
Giovanni Giolitti estese le norme che limitavano il lavoro femminile
e minorile, dichiarò lo sciopero un atto accettabile, istituì il
Consiglio superiore del lavoro. Da allora, nel nostro Paese la storia
del sindacalismo è proseguita tra alti e bassi, vittorie e sconfitte.
Camere del lavoro e leghe contadine furono costrette a sciogliersi
durante la dittatura fascista per lasciar posto alla sola Confederazione
dei sindacati fascisti. Il 9 giugno 1944 il Comitato di liberazione
nazionale, siglando il Patto di Roma, sancì l’atto costitutivo della
Confederazione generale italiana del lavoro (Cgil). Con la caduta
del regime fascista furono ripristinate le libertà sindacali, che nel
1950 portarono alla nascita di Cisl, Uil e Cisnal. Nel maggio del
1970 venne introdotto lo Statuto dei lavoratori, in gran parte condivisibile,
che riconosceva la libera manifestazione del pensiero,
la libera organizzazione sindacale, nuove norme per la tutela della
salute e dell’integrità fisica, per i permessi retribuiti, per favorire il lavoro
dei giovani. Il movimento sindacale ha fatto molto di buono
nel corso della sua storia. Ciò detto, con la crisi dei primi anni Ottanta
le diverse sigle sindacali si sono trovate sempre più spesso in
disaccordo su come affrontare le questioni sul tavolo, portando a
lacerazioni che assai di rado hanno fatto gli interessi dei lavoratori.
E la difesa di lavoratori «deboli» si è talora trasformata in eccessi.
Negli ultimi tempi non si sono evolute le posizioni, talora retrive,
della Cgil e di altre sigle e non si è del tutto compreso che la
difesa dei diritti deve essere coniugata con la possibilità economica
di garantirli. E che solo la produttività e la competitività dell’impresa
possono creare nuovo lavoro.
Rispetto ai principali Paesi nostri concorrenti nel mondo, negli
anni Settanta l’Italia era al primo posto per crescita della produttività
nell’industria. Negli anni Duemila ci troviamo in fondo alla classifica
e qualche colpa è certo anche del sindacato. Nel decennio 1970-
1979, l’output per ora lavorata (valore aggiunto al costo dei fattori)
del settore manifatturiero era cresciuto in Italia in media del 6,5%
all’anno, meglio che in Giappone (5,4%), Olanda (5,2%), Francia e
Germania (intorno al 4%), Stati Uniti (2,7%) e Regno Unito (2,4%).
Negli anni Ottanta l’Italia era scivolata in coda, dimezzando il
ritmo precedente (dal 6,5% al 3,2%). Negli anni Novanta la leadership
fu conquistata dagli Stati Uniti (4,3% l’anno), mentre l’Italia
continuava a rallentare (2,6%). Ma è nel primo decennio del Duemila
che la produttività nel nostro Paese precipita a un misero 0,4% in
media l’anno, contro l’1,8% della Germania e il 2,5% della Francia.
E meglio di noi ha fatto anche la Spagna (1,5%).
Non si tratta di sostenere tesi a senso unico e l’attività sindacale è
sacrosanta. Tuttavia, risulta difficile non vedere nel sindacato anche
un’altra casta, spesso un freno. Una realtà che costa allo Stato, e cioè
a noi, ben 136 milioni di euro l’anno per i soli distacchi sindacali
nel settore pubblico. Esclusi i permessi, perché se fossero contabilizzati,
la cifra aumenterebbe. E questo perché ben 2.233 dipendenti
pubblici, esclusi i dirigenti, svolgono attività sindacale. Si tratta di
un’attività non di rado a tempo pieno e questi lavoratori devono
essere sostituiti nello svolgimento delle loro mansioni.
Sono circa 700.000 i lavoratori (il 4% del totale) che godono di
permessi retribuiti per questioni sindacali e che consumano non meno di un
milione di giornate lavorative. Certo l’attuale legislazione
sta contraendo questi numeri, ma solo parzialmente. Oggi
la sfida consiste nella necessità di conciliare la flessibilità richiesta
dagli imprenditori con la tutela, sacrosanta, dei diritti dei lavoratori.
Non si tratta di fare gli ultraliberisti. Tuttavia, per crescere le
nostre aziende hanno bisogno di un mercato del lavoro flessibile,
di elasticità contrattuale e di un sindacato non necessariamente antagonista.
Possiamo girarci in tondo ed edulcorare il concetto, ma
vi sono situazioni in cui è necessario licenziare, premiare il merito
(sempre) o lavorare di più (talvolta). Il lavoratore deve essere tutelato
con ammortizzatori, attività di formazione ed efficienti servizi di job
placement, non certo rendendolo illicenziabile e facendo gravare
i costi dell’azienda, magari decotta, sulla collettività. Se vi saranno
maggiori condizioni di libertà, nasceranno nuove aziende e si
creeranno nuovi posti di lavoro. Secondo gli indicatori del World
Economic Forum, la nostra produttività è frenata anche dai complessi
rapporti sindacali, che rendono difficile assumere, premiare
il merito e, talvolta, complicano le stesse relazioni tra imprenditore
e lavoratore.
Se l’impresa chiude, non ci sono diritti da garantire. Gli enormi
sacrifici in tema di pensioni chiesti agli italiani di oggi sono figli
delle pensioni baby di ieri. E, inoltre, si allarga il solco tra lavoratori
con maggiori o minori tutele. Quello stesso solco che, se vogliamo,
esiste tra giovani e vecchi nel mondo del lavoro. Il Paese non può
vivere di flessibilità, ma il sistema produttivo non può nemmeno
morire di immobilismo, di immodificabilità e le riforme che si sono
adottate nell’ultimo periodo certo non bastano. Su questi temi il
sindacato non è sembrato al passo con i tempi. Va chiarito anche
un altro aspetto. In Italia il problema non è stato prioritariamente
non poter licenziare durante la crisi, ma non poter punire un dipendente
svogliato e incapace di lavorare con i colleghi. Nel XXI
secolo l’etica del lavoro dei dipendenti è molto più importante che
nel secolo scorso. In una catena di montaggio non ci sono grandi
differenze tra lavorare bene e lavorare male: i ritmi li danno le
macchine. Ma nell’economia dei servizi l’etica del lavoro diventa
la chiave dell’efficienza: un addetto alle vendite che tratta male un
cliente e una maestra svogliata o poco attenta possono causare danni enormi.
L’impossibilità da parte delle aziende italiane di sanzionare
i lavoratori con
cattiva performance e premiare quelli meritevoli è
una delle cause
della stagnazione della loro produttività. E certo
è questa una colpa
da attribuirsi anche al sindacato. Tornando ai
giovani, resta poi
il tema di quanto si sentano rappresentati dal
sindacato. I
sondaggi, e ancor più la nostra esperienza, ci dicono
che la sensazione
collettiva è che i sindacati tendano a rappresentare
solo i pensionati e
i lavoratori dipendenti, soprattutto quelli iscritti.
Anche da qui una
sfiducia evidente.
tratto dal libro “Privatizziamo! Ridurre lo Stato, liberare l’Italia” di Massimo Blasoni
«L’intendenza seguirà» – sentenziava Napoleone decidendo l’avanzata delle truppe. Purtroppo da noi accade spesso il contrario, con la politica che – magari inconsapevolmente (e si tratta allora di una colpa ancora maggiore) – si mette volentieri a rimorchio degli inamovibili vertici burocratici. Detentori della conoscenza dei sottili e complessi meccanismi istituzionali, sono essi a imporre in concreto le scelte. Dalla loro hanno un sapere astratto, ma ignorano quasi sempre la vita delle aziende e delle persone che pretendono di regolamentare. Negli ultimi anni si è così assistito a una curiosa versione della sindrome di Stoccolma, con ministri e deputati che a parole promettono processi di sburocratizzazione e semplificazione normativa, ma che poi si vedono costretti a promuovere e approvare provvedimenti di segno opposto, stesi in prima persona da capi dipartimento, direttori generali e soprattutto consiglieri di Stato: una genia di magistrati che interpreta tre parti in commedia. Essi sono bravi a scrivere le leggi, a interpretarle e ad applicarle. Sono davvero pochi i ministri, i sottosegretari, i presidenti di regione e gli assessori che riescono a imporre la propria visione delle cose a una riottosa macchina burocratica che nel tempo è riuscita a dilatare enormemente il proprio potere.
tratto dal libro “Privatizziamo! Ridurre lo Stato, liberare l’ Italia” di Massimo Blasoni
I grandi leader politici si rivelano tali per il loro saper comprendere le questioni cruciali del tempo, se necessario andando contro corrente. Lo fece ad esempio Bettino Craxi quando si convinse che il salvataggio della nostra economia dovesse passare attraverso l’abbattimento del perverso meccanismo della scala mobile, che, sulla base di uno strampalato automatismo, faceva scattare in alto i salari prescindendo da qualsiasi dato economico produttivo (erano i tempi in cui a sinistra si teorizzava il salario come «variabile indipendente» dei costi di produzione…). Aumenti di paga sì, ma al prezzo di un’inflazione eccessiva e dunque dannosa per la stessa capacità d’acquisto, che nel 1974 raggiunse il 24,10%. È un esempio fra tanti altri possibili. E, guardando all’Europa, perché non ricordare il famoso “No, no, no!” indirizzato da Margaret Thatcher a Jacques Delors, allora presidente della Commissione europea? Prima gli interessi della Gran Bretagna, poi quelli comunitari. O il Piano Hartz di Helmut Schröder sul mercato del lavoro. Costò le elezioni ai socialdemocratici tedeschi, ma riuscì a contenere l’inflazione e ad aumentare il tasso di occupazione. Trasporti, infrastrutture, ambiente, energie, rifiuti: in Italia il procedere delle scelte (quando ci sono state) non è parso quasi mai frutto di una strategia consapevole e nazionale. Così per il turismo, la cultura o il sostegno alle nostre aziende all’estero. Essere convintamente liberisti e pensare alla centralità del singolo e, in economia, dell’impresa, non vuol certo dire condividere l’assenza di qualsivoglia intervento politico, ovvero politiche ondivaghe sui temi di interesse generale. Non servono certo piani quinquennali, tuttavia la produttività e la competitività del sistema dipendono anche da strategie d’insieme. C’è qualcuno che intuisce un piano vincente nella nostra offerta universitaria o nella nostra strategia su porti e ferrovie? Occorre imporre una particolare visione delle cose e, soprattutto, non essere disposti a barattarla in cambio di un consenso facile e quindi effimero. Alla maggior parte degli eletti, invece, manca l’indipendenza necessaria per fare proposte. L’abilità, troppe volte, pare consistere nell’intercettare gli umori dei più, per poi sostenerne le tesi. Con
questo non si vuole negare che vadano colte e interpretate le richieste della gente, tutt’altro. Va evitata ogni chiusura dei politici in virtuali turres eburneae. Il rapporto con la società nel suo insieme non deve però essere acritico. Non è ammissibile dire sì a richieste talora insostenibili e nemmeno sostenere proposte smussate fino al punto di renderle accettabili a (quasi) tutti e quindi spesso inutili. Nel 1987, ad esempio, un’opinione pubblica spaventata dall’incidente al reattore sovietico di Chernobyl ha imposto la chiusura immediata delle nostre centrali atomiche, benché si sapesse assai bene che ne sarebbero rimaste decine in funzione a poche centinaia di chilometri dalle nostre frontiere. Fu una scelta sbagliata, che oggi viene scontata in termini di approvvigionamento energetico e di mancato know how industriale in un settore cruciale. E la difficoltà di assumere decisioni si riscontra nelle grandi come nelle piccole questioni, sino all’ultimo inceneritore da realizzare, ma osteggiato da qualche comitato. Non va conculcato il diritto al dissenso dei «no Tav». Presa la decisione di realizzare l’alta velocità come qualunque infrastruttura, occorre però essere conseguenti. Così pure quando si toccano gli interessi di gruppi che molto condizionano. Dai notai ai farmacisti, dagli avvocati al sindacato, sembra impossibile riformare. La politica nel nostro Paese è eccessivamente acquiescente all’emotività e agli interessi di larghe e piccole fasce di cittadini, comitati, corporazioni, caste e così via.
tratto dal libro “Privatizziamo!Ridurre lo Stato, liberare l’Italia”
Nel 1861 l’Italia, su circa 25 milioni di abitanti, aveva appena 3
mila o poco più impiegati pubblici censiti nella pianta organica dei
Ministeri, specificamente collocati negli apparati centrali. Sarebbero
diventati 11mila nel 1876. Circa 90mila alla fine del secolo. La spesa
statale, come percentuale del pil, si attestava intorno al 10%. Oggi
i dipendenti pubblici dichiarati dalla Ragioneria dello Stato sono
tre milioni e 300mila. A questi però si aggiungono, secondo l’Istat,
38mila tra professori universitari a contratto e ricercatori, a cui sommare
i dipendenti delle partecipate degli enti locali. Vi sono poi i
dipendenti delle partecipate e controllate dal Tesoro. Dai dati della
Corte dei Conti, ad esempio, la Rai ha oltre 12mila dipendenti, le
Ferrovie 69mila e le Poste 144mila. L’elenco non finisce ovviamente
qui e, se a tutto questo si dovessero aggiungere anche le stimate
500mila consulenze sottoscritte in un anno dalla Pubblica Amministrazione nei suoi vari livelli, il numero complessivo supererebbe di gran lunga i quattro milioni. Secondo l’Ocse, l’Italia figura tra i Paesi la cui dimensione del settore pubblico è maggiore. E quante leggi ci sono? Nessuno ne conosce con esattezza la cifra. Pare un mistero: forse ne sono state promulgate 130mila dal 1861, cioè dall’Unità d’Italia. Per Bassanini quelle vigenti erano di meno, 45mila, per Sabino Cassese 160mila, ma c’è chi è arrivato a ipotizzarne 300mila. Di sicuro ce ne sono troppe, si contraddicono e per quanti sforzi si faccia per delegificare o ridurne il numero non si sortisce alcun risultato. E non vanno dimenticate quelle europee, quelle regionali, i regolamenti di comuni e province. E che dire dei decreti attuativi e dei regolamenti di attuazione delle norme? Certo nessuno le conosce tutte, anche se la legge non ammette ignoranza. La vita in Gran Bretagna è governata da 3.000 leggi, in Germania sono 5.500 e in Francia 7.000. Non paiono Paesi incivili. In Italia solo quelle fiscali sono 1.800. L’eccesso di produzione normativa e la grande quantità di impiegati pubblici non sono gli unici problemi. Ci sono anche 8.057 comuni, 110 province (per il momento), 20 regioni, di cui 5 speciali. I livelli si intersecano con le competenze e prolifera la burocrazia. Dove tutti dispongono e tutti dialogano con tutti. Ogni comune appartiene a una provincia, ma la provincia non fa da tramite nei rapporti con la regione e questa in quelli con lo Stato a livello gerarchico, poiché il comune, essendo dotato di personalità giuridica, può avere rapporti diretti con la regione e con lo Stato. Tutti gli enti locali disciplinano con proprio regolamento, in conformità allo statuto, l’ordinamento generale degli uffici e dei servizi. Una sorta di guazzabuglio in cui il cittadino si deve muovere. I palazzi della burocrazia sono anche le prefetture, i palazzi di giustizia, gli ispettorati, i dipartimenti di prevenzione delle Asl e le mille altre articolazioni dello Stato. Equitalia, gli uffici finanziari, il Pra… E perché non parlare delle aziende speciali, fondazioni e società che fanno riferimento agli enti locali? Sono 8.000, forse di più. Dovevano occuparsi dei cinque servizi pubblici di base: acqua, elettricità, gas, trasporto pubblico locale e rifiuti. E in realtà si occupano un po’ di tutto. Non è forse espressione della burocrazia in senso lato anche la presenza dello Stato in economia? Dalla Rai alle Poste, dalle Ferrovie all’Enel, dall’Eni a Finmeccanica, dalla Cassa Depositi e Prestiti alla Consap, dall’Enav alla Consip, dall’Anas all’Istituto Poligrafico, e si potrebbe a lungo continuare.
estratto dal libro Privatizziamo! di Massimo Blasoni
Non esistono ricette dirimenti e valide per tutte le stagioni. Tuttavia, preso atto delle storture nostre e del nostro Paese e della necessità di rimboccarci le maniche, è necessario proporre una strada. Privatizziamo!, per chi scrive, in una prospettiva liberale è il primo punto dell’agenda. Le tasse sono passate dal 25% del pil nel 1975 al 50% di oggi perché lo Stato e i suoi apparati sono enormemente cresciuti, e questo ci frena. Giustizia sociale, democrazia, libertà e diritto sono più facilmente garantiti in una società che cresce e produce ricchezza. Non perché l’economia sia l’antecedente della politica, come credono, ad esempio, i marxisti, e tutto si risolva nell’ambito delle relazioni economiche tra gli uomini. Piuttosto nutrendo la convinzione che il lavoro, un’equa retribuzione o sistemi pensionistici e sanitari, universali ed efficienti, non sono garantiti«per decreto», ma sono il pro dotto di un’economia libera e di produttori messi nella condizione di creare ricchezza. Occorre creare le condizioni perché ciò avvenga, non dirigisticamente o con spese e investimenti pubblici enormi, semmai agevolando le condizioni dello sviluppo. Dunque, in politica interna con liberalizzazioni, privatizzazioni, riduzione delle imposte, minore burocrazia; con interventi autorevoli su temi chiave e trattati internazionali, in politica estera. Questi obiettivi necessitano di una riduzione sostanziale degli apparati e della sfera di azione della pubblica amministrazione. Non un’ Italia senza Stato, ma con uno Stato che legifera e vigila, non che produce e pervasivamente di tutto si occupa. Lo Stato non può, né deve sottrarsi a interventi strategici (infrastrutture, energia, rapporti internazionali), ma la sua azione deve essere solo la cornice all’attività dei privati. Un’economia statizzata e l’onnipresenza della pubblica amministrazione riecheggiano il socialismo reale, mentre il libero dispiegarsi delle relazioni economiche tra cittadini accresce la ricchezza. L’attuale visione, nei fatti monista, impostata su fisco e statolatria, è forse il nostro primo problema.
È necessario, invece, essere dalla parte dei produttori (impresa e lavoratori) e dunque ripensare ogni intervento legislativo e amministrativo, premiando gli interessi della produzione cioè del complesso dell’attività dei singoli italiani. La produzione come stella polare, co- me categoria informatrice, almeno sino all’effettiva uscita dalla crisi, che non è quella odierna, ma quella profonda e di lungo periodo che non sembra ancora esaurita. Questo poiché – come detto – le esigenze di occupazione, welfare e benessere trovano risposta in essa, così la giustizia sociale che non può essere solo astrattamente enunciata, ma necessita di risorse per realizzarsi. Porre al centro la produzione (e dunque l’efficienza) oggi, a giudizio di chi scrive, necessita di una drastica azione con riferimento a:
contrazione delle imposte, finanziata, se necessario, anche in deficit nella prima fase per far fronte all’iniziale minor gettito tributario;
semplificazione legislativa e amministrativa massime;
privatizzazione della stragrande maggioranza delle partecipazioni statali e dei servizi pubblici (della gestione dei servizi e talvolta dei servizi in sé). Per chiarire: dall’università alla sanità, dagli uffici comunali, all’acqua;
drastica riduzione della spesa pubblica;
riduzione del numero degli enti locali, degli enti pubblici, uffici dello Stato e, in complesso, dell’apparato amministrativo con sottrazione all’ambito pubblico di ogni funzione delegabile all’attività privata;
liberalizzazioni;
amplissima flessibilità in uscita ed entrata nel mercato del lavoro, estesa a tutti sia nell’impiego pubblico (fortemente ridotto) sia in quello privato, con ampio margine per le riorganizzazioni;
politiche delle infrastrutture, dell’energia e strategie di sostegno al sistema produttivo;
ridefinizione delle politiche e dei trattati
Si tratta di una ricetta drastica, liberista e nazionale: è chiaro. Mentre la teoria keynesiana ha sempre privilegiato il consumo se- condo logiche sostanzialmente meccanicistiche (illudendosi che fosse sufficiente elargire risorse per mettere in moto lo sviluppo), gli economisti liberali – da Jean-Baptiste Say fino a Joseph Schumpeter e Israel Kirzner – hanno insistito correttamente a più riprese sul ruolo imprescindibile dell’iniziativa imprenditoriale.
Questa economia dell’offerta, basata sull’idea che senza produzione e senza una produzione ispirata dalla ricerca della soddisfazione del pubblico non ci può essere crescita né sviluppo, fu anche alla base della rivoluzione reaganiana degli anni Ottanta. Senza la cosiddetta supply-side economics, che valorizzava appunto il ruolo delle imprese e della creatività del lavoro, non ci sarebbe stata, ad esempio, la Silicon Valley e tutto quello sviluppo di informatica e telematica che ha radicalmente cambiato il nostro modo di vivere e produrre.
Questa strada orientata verso liberalizzazioni e privatizzazioni radicali è ineludibile e, nel contempo, concretamente realizzabile. Nel 2015 si è assistito a tre fenomeni. Primo, il debito pubblico è aumentato di ulteriori decine di miliardi e le serie degli ultimi anni fanno pensare a una progressione inarrestabile. Secondo, il gettito tributario è restato sostanzialmente pari a quello del 2014, malgrado l’incremento della pressione fiscale su cittadini e imprese. Terzo, la crescita non riparte in termini sufficienti e il pil reale è inferiore oggi a quello di 15 anni fa.
Perciò, o si chiudono entrambi gli occhi e si spera in una ripresa generalizzata che ci trascini (ma, va ricordato che, diversamente dall’ Italia, la maggior parte dei Paesi europei ha oggi un PIL reale maggiore di quello precrisi) e si accetta il rischio di un graduale impoverimento, oppure va approvata una ricetta estrema, senza tentennamenti. Porre le istituzioni e gli italiani dalla parte della produzione (essendo ognuno di noi produttore) significa pensare che le idee e l’efficienza del lavoro, in un contesto fortemente semplificato e con minore presenza dello Stato, sono l’unica possibilità per uscire dal tunnel e lasciare uno spazio alle speranze dei nostri figli.
– tratto da Privatizziamo! Ridurre lo Stato, Liberare l’Italia